23 maggio, ricordando Falcone: “I mafiosi sono scomunicati”
La strage di Capaci fu un attentato messo in atto da Cosa Nostra in Italia, il 23 maggio 1992, sull’autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci nel territorio comunale di Isola delle Femmine, a pochi chilometri da Palermo.
Nell’attentato persero la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.
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«I discorsi non bastano più, l’orologio della storia segna l’ora in cui non è più solo questione di parlare di Cristo, quanto piuttosto di diventare Cristo, luogo della sua presenza e della sua parola».
Aveva ragione Pavel Evdokimov. L’ho pensato più volte nel leggere le cronache da Oppido Mamertina, con la processione fermata in segno di devozione davanti alla casa del boss locale, come del resto pare avvenisse da trent’anni, o quelle che raccontano dei detenuti mafiosi del carcere di Larino, pronti a disertare la messa ritenendo non avere essa un senso dopo la scomunica caduta sulle teste dei mafiosi.
Fatti diversi, eppure collegati da un filo rosso: le parole di Papa Francesco, che il 21 giugno, a Sibari, non peccò certo di chiarezza: «I mafiosi sono scomunicati».
Un’affermazione prorompente, quanto la verità sulla quale essa poggia. Per rendersene conto, basta guardare alla struttura psicologica, mentale e materiale della mafia: con il rito di affiliazione i mafiosi si votano a un’altra religione; compiono una scelta radicalmente diversa da quella dei battezzati cristiani, in netta antitesi con i valori evangelici.«Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione», scriveva Giovanni Falcone. La “pungiuta”, ovvero la punzecchiatura del dito col sangue che cade a gocce sull’effigie sacra mentre l’iniziato presta il suo giuramento davanti a una candela che darà poi fuoco all’immaginetta ormai vermiglia, non è solo l’elemento di una sceneggiata: nel rito iniziatico il candidato viene simbolicamente invitato ad abbandonare la propria precedente condizione di vita per acquisirne una nuova, del tutto diversa, caratterizzata da prestigio e potere. E nell’universo mafioso il potere è più importante della ricchezza economica e di qualsiasi altra cosa.
Al mafioso, più che i soldi, importa sapere che la vita altrui è nelle sue mani e che egli ne dispone a proprio arbitrio. Emblematico quanto diceva Leoluca Bagarella a un suo aiutante, poi pentito: «Io ho la possibilità domani mattina di decidere se una persona dovrà vedere o meno il sole. Tu lo capisci che io sono simile a Dio?».
Si tratta, dunque, di una religione capovolta, di sacralità atea. Di una scelta totalizzante, che pretende di trasformare e possedere l’individuo in funzione di un assoluto a cui egli deve darsi, quel potere a cui, da boss, è pervenuto, o a cui, da semplice gregario, deve obbedire. E nulla più che una inevitabile derivazione di questa visione è il fenomeno delle processioni infiltrate dalle cosche, delle confraternite piegate ai voleri dei boss, della religiosità popolare plasmata sui propri voleri: i mafiosi, indifferenti alle verità di fede, mostrano interesse per le manifestazioni religiose, strumentalizzate ai fini del riconoscimento sociale.
Il che dà ancor più forza al monito del Papa: la mafia non ha nulla di cristiano ed è dunque fuori dal Vangelo, dal cristianesimo, dalla Chiesa. Essa, più semplicemente, è una forma di paganesimo, perché colloca degli uomini nel ruolo di detentori della totalità del potere e del sapere, escludendo che possa esistere o esservi un’istanza più alta oltre se stessa.Per questo le parole del Papa, rese potenti dall’autorità morale, chiudono il cerchio di un cammino che la Chiesa aveva intrapreso qualche tempo addietro e suonano come presa d’atto di un atteggiamento inderogabile: per il configurarsi la mafia come apostasia, si pongono automaticamente al di fuori della comunità cristiana non solo i mafiosi condannati con sentenza passata in giudicato, ma tutti coloro i quali di essa fanno parte a pieno titolo, in colletti bianchi o rosa…
(abstract di Vincenzo Bertolone, Arcivescovo di Catanzaro Squillace – tratto dall’osservatore Romano del 17 luglio 2014 )
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