Amalfi sommersa: mito o realtà?
I continui contatti col mondo arabo favorirono l’acquisizione, da parte degli Amalfitani, di numerose nozioni di carattere scientifico, nonché di importanti innovazioni raggiunte in campo tecnologico. Tra queste vi erano certamente quelle riguardanti l’ingegneria idraulica e, nella fattispecie, delle opere portuali.
E’ chiaro, comunque, che gli Amalfitani dovevano in qualche modo possedere le conoscenze tecniche a riguardo ereditate dagli antenati romani, come sembrano, d’altronde, dimostrare i ritrovamenti di strutture portuali classiche a Fonti e sull’isolotto del Gallo Lungo. Sulla base di queste tradizionali cognizioni, i geniali Amalfitani del Medioevo dovettero sovrapporre le novità mutuate dal mondo arabo.
Allo scopo di trovare una risposta al mito di “Amalfi sommersa” ed alla domanda circa le potenzialità portuali e cantieristiche della repubblica marinara nel corso del Medioevo, sono state condotte varie esplorazioni subacquee davanti alla città ed in altri siti della Costa, corroborate anche da ricerche nelle fonti documentarie. I risultati ai quali gli studiosi sono pervenuti sono oggi ben noti. La citta marinara aveva vari attracchi nell’ambito della sua costa, alcuni dei quali erano praticamente insenature naturali, quali la rada di Conca dei Marini o Marmorata. Davanti al suo litorale, però, Amalfi aveva strutture portuali realizzate interamente dal genio umano in epoca medievale.
Nel settore orientale una banchina di attracco con bitte in muratura avanzava parallelamente alla linea di costa, parte poggiante sulla terraferma e parte in acqua. A tale banchina, formata da due linee parallele di muraglie, tra le quali avanzava un corridoio alquanto stretto, erano poi collegati due moli perpendicolari alla stessa, completamente costruiti in mare e forniti di torretta quadrangolare, avente la funzione di faro. Alle spalle di questa struttura, che si sviluppava di fronte alla città, nel tratto di litorale posto ad oriente del fiume, si estendeva una vasta piazza cementata in declivio: era lo scarium della città, cioè una sorta di cantiere navale all’aperto, sul quale si costruivano le imbarcazioni e si tiravano anche a secco.
Un’altra simile piazza era presente nella vicina città di Atrani, mentre altre dovevano essere a Minori ed a Maiori. Queste erano le potenzialità portuali della città almeno nel periodo della Repubblica indipendente e nell’età normanna; a queste banchine attraccavano galee da guerra e navi mercantili, le quali erano, comunque, come confermano le fonti, di modesto cabotaggio.
Nel corso dell’Alto Medioevo queste strutture portuali erano certamente all’avanguardia e favorivano le capacità marinare amalfitane: una conferma in tal senso viene fornita dal progetto anti-normanno di Pantaleone de Comite Maurone (1063), il quale prevedeva lo stazionamento di cento navi bizantine nel mare amalfitano.
Ma lo sviluppo marinaro e cantieristico delle concorrenti tirreniche Pisa e Genova fece passare inesorabilmente in secondo piano le antiche potenzialità portuali amalfitane, per cui il Cardinale Pietro Capuano, molto sensibile ad una ripresa marinara della sua patria, volle dare inizio, verso il 1209 e a proprie spese, alla costruzione di un vero e proprio porto artificiale che principiasse da una lieve insenatura sottostante alla Canonica (oggi Hotel Convento, ex Cappuccini) ed avanzasse di fronte alla città.
L’ardua opera da lui incominciata fu effettivamente completata dall’Università di Amalfi, come confermano alcuni documenti del 1271, tra il 1278 ed il 1314. La costruzione fu realizzata secondo i canoni dell’ingegneria idraulica araba, allora in voga nel regno di Sicilia, grazie all’attivismo fridericiano e di Manfredi, che dotò vari centri regnicoli di buoni porti artificiali.
Un lungo molo fu costruito, con grossi pilastri ed archi voltati quasi interamente in mare, mediante la realizzazione di fitte palizzate, nelle quali, una volta svuotate dell’acqua, venivano gettate enormi quantità di pietre calcaree e di malta idraulica. Nel corso dei lavori erano impiegate anche persone che si immergevano in apnea. Tolta poi la palizzata, il muraglione era in grado di resistere all’azione del mare, in quanto la speciale malta aveva la proprietà di indurirsi a contatto con l’acqua.
Per tali opere gli Amalfitani utilizzavano la “torece” (durities), tufo piroclastico eruttato nel 79 d.C. dal Vesuvio, che abbonda nei centri costieri, unito a piccole quantità di calce. Quest’ultima era prodotta in appositi fossi scavati sulla spiaggia, mediante il calore prodotto dall’incendio della legna, o in appositi edifici in pietra cilindrica, denominati “calcare”.
Gli Amalfitani erano considerati particolarmente abili nella realizzazione di tali opere portuali, tant’è che nel 1306 molte e varie maestranze provenienti dal ducato amalfitano furono chiamate per la costruzione del nuovo porto di Napoli.
Tra il XIII ed il XIV secolo Amalfi possedeva così una rada portuale decisamente efficiente , direttamente collegata agli arsenali e ad altri cantieri, nonché alle piazze mercantili ed artigianali della zona bassa. Purtroppo l’area portuale della città medievale sprofondò inesorabilmente nel mare nella notte tra il 24 ed il 25 novembre del 1343 a causa di una frana sottomarina: le vestigia di queste imponenti opere d’ingegneria idraulica mutuate dal mondo arabo sono, per fortuna, tuttora ben visibili a poche decine di metri dall’attuale linea di costa. La loro salvaguardia contribuirà a conservare un raro e notevole esempio di tecnologia medievale mediterranea, patrimonio dell’umanità intera.
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