Brandelli di memoria
Pubblichiamo oggi il racconto breve di Marilena Pacileo, amalfitana residente a Firenze, vincitrice del premio “Farfalla d’argento” a Baveno (VB), al XXXIII concorso nazionale di prosa, poesia, pittura e fotografia dell’associazione 50 & PIU’. E’ uno spaccato di vita amalfitana nell’immediato dopoguerra, immagini vividamente rese dall’Autrice che, con un pizzico di nostalgia, riporta alla memoria indimenticabili ricordi d’infanzia.
Sono nata in tempo di guerra a quasi un mese dall’armistizio dell’otto settembre e a pochi giorni dalle Quattro Giornate di Napoli (27-30 settembre 1943), mentre passavano rombando gli aerei inglesi che andavano a Napoli, ormai liberata grazie all’eroismo dei suoi figli.
Ho aperto gli occhi alla luce di Amalfi, sospesa tra sogno e realtà e ci ho vissuto fino a metà degli anni ’50, nella casa di famiglia a sinistra della Cattedrale (dalla nostra terrazza si poteva quasi toccare la balaustra dell’atrio!) sotto l’ègida “do’ Campanale” arabo-normanno, imponente e insieme proteggente; corteggiava le nuvole che il vento sospingeva verso Scala e Ravello e s’accostava a salutare gli abitanti silenziosi delle “21 Casarelle” (il Camposanto monumentale) e “’a Torre ‘o Ziro”, teatro dell’ultimo atto della tragica vicenda della Duchessa d’Amalfi.
Nel Dopoguerra gli inverni erano lunghi e monotoni, solo le feste religiose e civili ritmavano l’ovattato tran-tran del paese; poi arrivava finalmente “’a Stagione” (primavera-estate) e cominciavano a tornare “i Forestieri” e l’attività diventava frenetica.
Nella brutta stagione regolarmente mancava la corrente elettrica; ai primi lampi e tuoni: «Se n’è juta ‘a luce!», tutto il paese sprofondava nel buio e tra la pioggia battente e l’impeto del vento, che scendeva da Tramonti, le imposte sbattevano e la casa tremava (ci pareva). Io e mio fratello proprio sotto “’’o Campanale” imploravamo S. Andrea: «Nu fa’ carè ‘o campanale e nun fà scénnere a sciumara» (il Canneto non arginato spesso straripava e si riprendeva il suo alveo).
A casa mia, come nelle altre famiglie, c’era il matriarcato: i nonni morti, mio padre, secondo la tradizione, “ad navigandum” in Calabria per commercio e mia madre mandava avanti la baracca coll’aiuto delle nonne.
In quelle sere, intorno allo scaldino alla fioca luce di “ciròcini” e lucerne, le nonne Rachelina Lucibello e Maddalena Apuzzo, per esorcizzare la paura recitavano pezzi del loro vasto repertorio e c’era l’imbarazzo della scelta: filastrocche antiche, aforismi in latino maccheronico della scuola salernitana, leggende contrabbandate per verità rivelate.
“’A Janara ‘e Conca, ‘o Mammone, l’Aùria” e i loro sortilegi convivevano sub specie aeternitatis con i Santi della costiera (Andrea, Maria Maddalena, Trofimena, Pantaleone, etc) e i loro miracoli.
Il cavallo di battaglia della collezione era appannaggio della nonna paterna Maddalena: una sua avventura alla fine dell’Ottocento, legata alla storia tragica e affascinante della Duchessa d’Amalfi, Giovanna d’Aragona.
Giovanna, figlia di Enrico d’Aragona marchese di Gerace, nacque nel 1477 (o nel 1485), andò sposa nel 1497 ad Alfonso I Piccolomini, secondo duca d’Amalfi; di straordinaria bellezza fu ritratta anche da Raffaello (il dipinto si trova attualmente al Louvre di Parigi). Rimasta vedova nel 1503, partorì un figlio postumo, Alfonso II, terzo duca d’Amalfi. Obbligata dai fratelli Carlo marchese e Luigi cardinale a non risposarsi, sposò invece segretamente con l’aiuto di un frate cappuccino il maggiordomo di palazzo Antonio Bologna, da cui ebbe due figli e che l’aiutò a risanare le dissestate finanze del ducato.
Scoperto il matrimonio, i due fratelli diffusero la voce della sua follia e per ordine del cardinale fu rinchiusa insieme ai figlioletti nella Torre, dove morirono di fame o trucidati o addirittura bruciati vivi.
Il suo fantasma “si dice” ancora vaga in quel luogo e custodisce un tesoro maledetto, cercato ma mai trovato. Anche il Bologna, raggiunto dai sicari del cardinale, non sfuggì alla vendetta e fu ucciso a Padova dove fu sepolto.
Nonna Maddalena sin da bambina abitava sotto il Cimitero e la torre, tra i limoneti terrazzati, in una casa dalla vista mozzafiato a strapiombo sul paese e il mare all’orizzonte; il padre Nicola ‘do Camposanto (è ancora d’obbligo in costiera il cognome), rimasto vedovo si era incupito, non si curava dei tre figli che crescevano senza guida, liberi, sorreggendosi l’un l’altro.
Anche se il luogo era impervio, nelle sue scorribande solitarie Maddalena saliva fino alla Torre e un giorno di primavera inoltrata, guardando la parte alta piena di erba e fiori, le venne lo schiribizzo di entrare a dispetto dei divieti. S’inerpicò con facilità, papaveri enormi spiccavano sui ruderi, rossi come il sangue (io li avrei visti così tanti anni dopo solo a Micene nella reggia, là dove era stato ucciso Agamennone) e… sorpresa! Nell’erba luccicava una moneta, l’afferrò con trepidazione e tornò sui suoi passi per uscire, ma tutti i tentativi erano inutili.
Chiusa nel fortino, disorientata, in preda al terrore piangeva, gridava, il sole infuocato già annegava nel mare, le rispondeva solo l’eco.
Dopo un tempo infinito, la sera calava, all’improvviso passò (o apparve) un vecchio vestito all’antica: «Picciré, pecchè allùcchi e chiagni?» – «Nun pozz(o) chiù asci ‘e ca dint(o)» – «Nun è che avissi truvato cocch(e) còsa?» – « Sì sulu nu sord(o), ca’pare ‘e oro» – «Jèttalo subito, vir(i) ca iésci e nun saglì chiù ca’ncoppa, a Duchessa nun vò».
Maddalena ubbidì e uscì facilmente, voleva ringraziare, ma il vecchio non c’era più: andato via…/sparito????
Le candele si spegnevano, mamma rompeva l’incanto «S’è fatto tardi, andiamo a dormire», e la macchina del tempo, al suo richiamo, ci riportava bruscamente al capolinea e al tepore del letto riscaldato con le bottiglie d’acqua calda.
Firenze, giugno 2015
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