I Cortei delle quattro Repubbliche
La storia delle repubbliche marinare italiane, cui insufficiente attenzione è stata finora riservata in ambito storico didattico e divulgativo, merita, invece, rilievo primario al fine della comprensione delle dinamiche evolutive delle autonomie comunali e delle interrelazioni socio-economiche e culturali dei Paesi del bacino mediterraneo in epoca medievale.
Questa riflessione sorge spontanea, nella mente di chi, abituato all’osservazione delle vicende medievali della storia patria, si trovi per la prima volta al cospetto dell’imponente sfilata in costume dei cortei storici che connota, con sorprendente ricchezza di “colori, ori, splendori”, ogni edizione della Regata. Spinti dall’avvertita motivazione a rappresentare al meglio momenti e figure della loro storia e in parte anche dall’esigenza di proporre l’immagine, attraverso un impatto il più possibile spettacolare, i Comitati Cittadini delle quattro città si adoperarono, nei primi anni ’50, con passione e abilità improntate ad altissima fedeltà storica, alla ricomposizione dei costumi, alla ricostruzione scenica di episodi storici tra i più notevoli, e, infine, all’ideazione dei nutriti e suggestivi cortei. Essi appaiono straordinariamente rispondenti a criteri di ottimizzazione coreografica che assolvono perfettamente alla funzione rievocativa loro assegnata, suscitando immancabilmente profondo coinvolgimento emotivo. In questo senso il corteo si rivela efficace veicolo di valorizzazione e divulgazione culturale storica che meglio si valuterà attraverso la dettagliata illustrazione.
AMALFI
Le nozze con il potere
“Dai mosaici e dalle arche di Ravenna, di Classe, di Roma, dagli argenti di Urbino riaffiorano le dalmatiche, gli stoloni, gli omerali lamellati e trapunti d’oro dei Duchi, della Ducissa, delle ancelle velate, lievi come le vergini di S. Apollinare, dei Consoli ammantati di preziose sete di Tiro e di Aleppo, i velluti, a volte foschi, a volte fiammeggianti, dei Giudici e degli Ambasciatori, dei damaschi dei Valletti e dei Paggi, portatori delle insegne delle dignità e dei poteri. I Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, i Cavalieri della Corte Ducale sono già, nella loro armatura e nelle loro vesti, prossimi alle fogge dei cavalieri d’Europa, che muoveranno il riscatto della Terra Santa. Queste fogge e queste armi sono eternate nelle pietre, negli avori, nei codici, nelle grandi cattedrali, nei musei, nelle biblioteche, a S. Marco, a Firenze, a Parigi. Alfieri, Trombettieri, Timpanisti, Arcieri, Marinai tornano dai mosaici, dalle vetrate, dalle arche, a ricordarci, coi loro mantelli crociati, con le tuniche e col loro berretto frigio di uomini liberi, un grande passato e a ridarci fede nell’avvenire”.
Con tali appassionate espressioni Roberto Scielzo, lo scenografo che nel 1955 disegnò e produsse i costumi per il corteo storico di Amalfi, intendeva sottolineare che quest’ultimo rievocava la società marinara negli anni intorno al Mille, quando l’organizzazione politico-amministrativa, la marineria e i commerci col mondo arabo e con quello bizantino avevano raggiunto il loro apogeo.
Motivo ricorrente sugli abiti dei personaggi è la croce ottagona di derivazione romano-bizantina, antico simbolo civico di Amalfi, evidente sui tarì della repubblica marinara già verso la metà dell’XI secolo e destinata a diventare l’emblema dei monaci-cavalieri gerosolimitani di S. Giovanni (oggi di Malta).
Il nucleo del corteo è rappresentato da coppie di giovani cavalieri e dame che circondano gli sposi festanti, avanzanti all’ombra del pallio che poco prima era servito per la benedizione nuziale degli anelli, rivisitazione del matrimonio che avvenne la domenica 26 aprile 1002 tra Sergio III, figlio del duca Giovanni I e nipote del magnificentissimus dux Mansone I, e Maria, figlia del principe di Capua-Benevento Pandolfo II.
Le massime magistrature della repubblica sottolineano la solennità dell’evento, in conseguenza del quale il giovane sposo sarebbe stato incoronato duca nella cappella palatina del S. Salvatore de Birecto di Atrani. Pertanto, emergono nel gruppo di figuranti il vegliardo duca Mansone con berretto, omerale e paludamento, il duca Giovanni col mantello purpureo, i giudici con le Pandette del Codice di Giustiniano, i consoli reggenti le “colonie virtuali” amalfitane d’oltremare, il console del mare, magistrato delle attività marinare.
Il gonfalone della repubblica, affiancato dai valletti, riproduce la Ninfa Amalfi come descritta nella prima pagina della Tabula de Amalpha, il codice della navigazione prodotto tra XI e XIV secolo.
Completano il corteo cavalieri armati di spadone, marinai, arcieri, alfieri, timpanisti e trombettieri della galea rubea, l’ammiraglia della flotta ducale.
“Volta anch’ella a Oriente, in quell’istesso/ mattin scendea dai pallidi d’ulivi/ Amalfitani clivi/ una gagliarda gioventude: l’arme/ in su la spalla; il carme/ in su le labbra; l’onda/ di fronte immensa; e la baldanza in core >> (Aleardo Aleardi, Canti, 1880). Questi giovani amalfitani del Medioevo si recano a Gerusalemme per essere nominati frati-cavalieri dell’Ordine di S. Giovanni Battista dal suo istitutore fra’ Gerardo Sasso, medico-monaco di Scala e priore dell’ospedale amalfitano, secondo la formula: << In nomine domini Dei salvatoris nostri Jesu Christi. Nos Gerardus de Saxo, institutor ac praepositus Hierosolymitani Xenodochii, nominamus te fratrem Sanctae Religionis Ordinis Sancti Iohannis Baptistae, ut persequaris tuitionem fidei et obsequium pauperum”.
GENOVA
Il Sacro Catino
Genova rivive, attraverso il suo corteo, gli anni intorno alla Prima Crociata, quando la repubblica marinara, da poco resasi autonoma, emancipandosi dal dominio imperiale germanico, faceva apparire le sue vele militari e mercantili nei mari d’Oriente.
La figura di spicco è, pertanto, Guglielmo Embriaco detto “Testadimaglio”, esponente di primo piano della giovane repubblica ligure e condottiero genovese alla Prima Crociata. Egli veste abiti militari, contrassegnati dal suo emblema araldico dei tre leoni rampanti neri in campo d’oro. Lo precede un paggio, che gli porta lo spadone, l’arma che lo aveva contraddistinto nell’espugnazione di Gerusalemme, quando egli, primo fra tutti i capi crociati, vi penetrò con lo stratagemma della galea trasformata in torre d’assalto, attraverso la porta di Sion.
Armati di quella spedizione, con caratteristiche casacche bianco-crociate, lo anticipano e lo seguono nella sfilata, quegli stessi che egli ripagò assegnando loro due once di pepe a testa.
Il più grande tesoro che l’Embriaco portò dall’impresa gerosolimitana campeggia su di un cuscino di velluto: è il Sacro Catino, che Cristo utilizzò nell’Ultima Cena.
L’avventura crociata del Testadimaglio, di suo fratello Primo di Castello e dell’intera armata genovese, insieme alla storia della città, è raccolta negli annali di Caffaro di Caschifellone, che, come un’ombra, segue il suo eroico e quasi santo cavaliere.
Alfieri e capitani simboleggiano nel corteo l’organizzazione della Compagna e le sue attività commerciali, già fiorenti negli ultimi anni de secolo XI.
La nobiltà mercantile, rappresentata da dame e patrizi, riccamente vestiti con stoffe provenienti da Antiochia, dal quartiere Galata di Bisanzio, dal porto di Pera, da Caffa nel Mar Nero, apre il gruppo conclusivo della sfilata genovese alla Regata.
In rigoroso ordine gerarchico sociale seguono, quindi, i popolani, una variegata classe formata da monaci, artigiani, marinai, pescatori, contadini.
PISA
Le campane e l’eroina
Il rosso è il colore che rende quasi monocromatico il panneggio dei personaggi che costituiscono il corteo di Pisa: quello era, infatti, il colore simbolo della repubblica marinara, quando essa si rese libera da ingerenze feudali vicecomitali di stampo germanico e, negli anni ’70 dell’XI secolo, si trasformò in Comune marinaro retto da consoli annuali, nel quale godeva di forte influenza l’arcivescovo Dagoberto, che con la Prima Crociata, al comando di 120 galee, si sarebbe imposto come patriarca di Gerusalemme.
Il gruppo pisano della Regata ripercorre, comunque, varie fasi della storia della repubblica toscana fino alla disfatta della Meloria (1284).
Innanzitutto, viene rievocata l’eroina Kinzica de’ Sismondi, che, secondo la tradizione, nel 1005 avrebbe salvato la città da un improvviso e furtivo attacco notturno arabo, reso possibile dall’assenza della flotta impegnata nelle Baleari, avvisando per tempo la popolazione, che respinse egregiamente l’invasore.
Quindi, il gonfalone, sul quale campeggia la croce pomettata d’argento, ottenuta dai pisani a seguito della nascita della loro colonia costantinopolitana sul Corno d’Oro (1111), apre i fulgidi momenti della storia repubblicana che videro Pisa protagonista principale nei confronti marinari con Genova e Venezia per il dominio dei mari.
Gruppi di fanti e di balestrieri ricordano gli assalti delle truppe da sbarco delle galee in vari siti del Mediterraneo, pronti a battersi con bizantini, arabi, genovesi, veneziani, normanni, amalfitani. L’aquila nera imperiale in campo d’oro, evidente su bandiere e timpani, entra quasi in pari competizione col tradizionale vessillo della repubblica, a testimonianza della fedeltà pisana alla causa sveva in Italia.
Procedono, poi, come in una rappresentazione diacronica, i magistrati che si alternarono al vertice dell’amministrazione del Comune e che ne costituirono le varie fasi evolutive: dapprima i consoli dei mercanti e del mare, i priori delle arti, i senatori e gli anziani, quindi il podestà e il capitano del popolo rigorosamente a cavallo.
La marineria pisana è, infine, presente con i patroni (i capitani delle navi), i comiti (capi delle ciurme) e i semplici marinai delle galee.
VENEZIA
Una regina fascinosa
La serenissima repubblica di S. Marco rievoca, col suo corteo, l’epoca del massimo splendore, cioè il secolo XV, quando era diventata ormai padrona del Mediterraneo orientale, entrando in possesso, in concomitanza con la irreversibile crisi politica e militare dell’impero di Bisanzio, di numerose isole greche e di ampie fasce costiere della Dalmazia. Allora Venezia era già pronta a fronteggiare con grandi eroismi e imponenti vittorie il tentativo di avanzata turca verso occidente.
Il gonfalone che apre la sfilata della delegazione veneziana è lo stesso che papa Alessandro III volle concedere alla repubblica veneta nel 1171, quale segno di riconoscenza per l’abile mediazione mostrata quando nella città lagunare si svolsero le trattative di pace tra il papato, l’impero germanico e i Comuni della Lega Lombarda.
Trombe, tamburi e armati avanzano nelle loro sfarzose vesti di chiaro stampo rinascimentale, associate ad alabarde o partigiane coeve.
Circondato e affiancato da nobili, esponenti di rilievo della ricca aristocrazia mercantile che deteneva da secoli il potere, procede il doge sotto l’”umbrella” sostenuta da un patrizio: il “corno” che copre il suo capo, il manto di ermellino, la veste di seta porpora con arabeschi dorati formano i simboli della sua potestà.
Lo seguono immediatamente i rappresentanti del potere oligarchico che governava la repubblica marciana, cioè i componenti del Consiglio dei Dieci e del Minor Consiglio, i senatori e i pregadi, che sfoggiano pregiati tessuti di velluto.
Il possente apparato marinaro e militare, prodotto nel più famoso arsenale dell’epoca, è qui rappresentato dal “capitano da mar”, l’ammiraglio di quella flotta che incuteva timore e riverenza in ogni sito del Mediterraneo, rimembranza, ad esempio, di quell’eroico Francesco Morosini, che tanta celebrità si guadagnò a Famagosta.
Il corteo veneziano viene chiuso da Caterina Cornaro, vedova di Giacomo da Lusignano e regina di Cipro, che nel 1489 donò l’isola alla Serenissima: preceduta da leggiadre damigelle riccamente vestite di broccato, ella è trasportata su di una portantina da un gruppo di schiavoni mori.
Sono questi gli ultimi bagliori dell’opulenza veneziana prima dell’avvento di un lento, ma progressivo declino, intimamente connesso al mutamento dei tempi e delle favorevoli congiunture.
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