Il Cimitero delle Fontanelle: la morte a nudo.
Una giornata di sole in una Napoli dai mille colori, in giro per quel quartiere che, fu del principe Totò e di Eduardo, luoghi in cui, senza retorica alcuna, il tempo pare si sia fermato.
Ed è proprio qui, superata la Chiesa del Carmine che sorge il cimitero delle Fontanelle di Napoli. Un cimitero storico tiene a precisare la guida, ed in effetti è proprio così.
L’associazione “I care” nata nel 1986, si prefigge di contrastare il degrado e il disagio che vive il quartiere della Sanità.
La conoscenza storica e la valorizzazione di un sito di grande bellezza, la passione con cui provano a prendersi cura da tempo, tra mille difficoltà ed impedimenti, è testimoniata dalla profondità delle parole di Rocco Civitelli, che come novello Virgilio ci guida attraverso un “regno” che non è magico, ma umanamente terreno.
E’ difficile descrivere a parole, la suggestione che si prova nell’entrare in un posto che non è solo una cava scavata nel tufo, che è più di un cimitero; un’opera d’arte che sopravvive al tempo ed alla storia; che a suo modo riannoda il filo tra la vita e la morte.
Il cimitero delle Fontanelle è una zona franca che non mette paura, dove la coscienza dell’essere umano, se messa a nudo, è consapevole del Se rispetto alla fine, senza che vi sia timore alcuno nel camminare andando tra ossa, crani, teschi e tanta polvere, un qualcosa che evoca di più che soli resti mortali.
Camminando scorgi le tante teche che fiancheggiano un percorso di un antro maestoso, la cui geometria dei tagli del tufo sembrano riecheggiare il protrarsi della terra verso la grandiosità dell’infinito, in cui il senso della morte è talmente ben rappresentato che il visitatore, nella sua piccolezza rispetto alla dimensione del tutto, spesso vorrebbe trovarci un senso che non si può rappresentare, se non in una logica sistemazione di tutte le cose, in cui ciò che si compone è la decomposizione dell’esistente.
Da talune aperture laterali dal soprassuolo affiora la luce, e la fievolezza sembra alludere ad uno spazio confinato in cui il dramma dell’affidarsi per una interlocuzione col regno della vita ultraterrena, vada oltre il limitato orizzonte di chi scorge un rituale pagano o di mera superstizione in certune pratiche affettive per una delle “capuzzelle”, per come le chiamano i devoti.
Eppure è vero, se non ci si sofferma a pensare, è facile cedere al banale, piuttosto che afferrare il senso di un popolo che in epoche di grande smarrimento e svilimento, ricerca la via per elevarsi, per redimere l’anima, per alleviare le pene, proprio come in un’allegorica ricostruzione di un purgatorio terreno, vissuto ancor prima del memento mori.
In fondo per il cimitero delle Fontanelle cos’è il culto dei morti? Cosa, evoca la morte?
Qui la morte, paradossalmente, se intesa nel senso del distacco, non c’è, perché materializzata in un segno tangibile diverso dalla nuda pietra marmorea a perpetuare il ricordo.
Qui nel fondo delle viscere di madre terra, sembra che abbia inizio proprio da quella polvere il processo di creazione, che nella omogeneità rappresenta un ciclo del vivere e morire, in cui la morte come per ogni credente, non è un fine a se stante, come eterno saluto, quanto più il senso che quei resti interpretano la vita dell’anima, evocando una rilettura in chiave moderna in cui la morte messa a nudo, tra teschi e ossa, assomiglia sempre più all’arte concettuale, nell’accezione del creare, di rinascita, di una vita che nel suo disfacimento si disvela al nuovo al di là della materia.
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