La dinastia del duca Sergio I (958-1073) – VIII e ultima parte
A causa della penetrazione dei Normanni, il territorio bizantino della Puglia veniva intanto restringendosi sempre di più: nel 1060, con la presa di Reggio, ebbe fine il thema di Calabria. Papa Nicola II legittimò le conquiste normanne nel sinodo di Melfi del 1059, nel quale concesse a Roberto il Guiscardo l’investitura della Puglia e della Calabria e a Riccardo di Aversa quella di Capua.
La diplomazia bizantina non poté quindi più contare sulla Chiesa romana come partner di un’alleanza antinormanna e come possibile mediatrice con la corte imperiale tedesca.
Quando però, dopo la morte di Nicola II nel 1062, scoppiò uno scisma in cui il vescovo sostenuto dalla corte tedesca, Cadalus di Parma, venne a contrapporsi al candidato del partito riformatore, tornò di nuovo attuale l’idea di un’alleanza contro i Normanni.
Il collegamento tra Roma e Costantinopoli fu stabilito tramite l’amalfitano Pantaleone de Comite Maurone, il quale aveva accumulato con i suoi fortunati traffici una grossa fortuna e, possedendo una casa a Costantinopoli, aveva buoni rapporti con la corte imperiale. In una lettera al vescovo Benzone di Alba ed ai maggiorenti romani – il vescovo sosteneva a Roma il partito di Cadalo – Pantaleone, richiamandosi ai rapporti fraterni intercorsi nel passato fra il re romano e l’imperatore bizantino, invocava un’azione comune contro i Normanni invasori.
Egli avrebbe personalmente perorato presso Costantino I Dukas un appoggio ad Enrico IV, mentre Cadalo avrebbe dovuto dare il suo contributo per stabilire un accordo fra i due sovrani.
Nello stesso tempo faceva la sua comparsa nella capitale bizantina il principe Gisulfo II di Salerno, per chiedere all’imperatore aiuti finanziari contro i Normanni. Durante il suo soggiorno sul Bosforo, Gisulfo fu ospite in casa di Pantaleone e certamente venne a conoscenza dei piani dell’Amalfitano.
L’imperatore si decise finalmente ad agire. Un’ambasceria si recò da Cadalo a Tusculum e gli portò una proposta ufficiale di alleanza. Poiché la corte tedesca non si muoveva, inviati delle città pugliesi e calabresi si recarono a Roma sotto la guida di Pantaleone. Questi consegnò a Cadalo un nuovo messaggio di Costantino e gli offrì le chiavi di Bari e di altre città.
In una lettera, che Benzone di Alba inoltrò poi in Germania, l’imperatore prometteva di garantire il vettovagliamento di un esercito tedesco di invasione e faceva sperare nella disponibilità di larghi mezzi finanziari. Una flotta di 100 navi sarebbe approdata ad Amalfi ed avrebbe assicurato colà il vettovagliamento dell’esercito. L’offerta però non fu presa in considerazione dalla corte tedesca; dopo il colpo di stato di Kaiserswerth Cadalo fu ben presto messo da parte e si riconobbe infine Alessandro II, ben disposto verso i Normanni, come papa legittimo.
Quando Pantaleone arrivò a Roma nel 1063, Cadalo si era già barricato nella fortezza di Castel S. Angelo, sicché l’Amalfitano ed i suoi accompagnatori, per arrivare da lui, dovettero risalire il Tevere in veste di mercanti. L’espansione dei Normanni nel Mezzogiorno era ormai inarrestabile.
L’espansione normanna fece sentire le sue conseguenze anche ad Amalfi, e non tanto perché occasionalmente gli Amalfitani che viaggiavano per terra venivano assaliti dai Normanni, quanto piuttosto per la pressione da questi esercitata sul limitrofo principato di Salerno.
Gisulfo II dovette infatti tollerare che il territorio del suo stato cadesse pezzo per pezzo nelle mani dei conquistatori.
Per compensare le perdite occupò allora territori costieri fino a S. Eufemia in Calabria e riprese le ostilità contro Amalfi. La sua intenzione era di fare come suo padre e procurarsi con l’annessione di Amalfi una fonte di denaro. Dapprima ostacolò il commercio degli Amalfitani facendo intercettare le loro navi: i mercanti venivano incarcerati e, nel caso che non potessero pagare il riscatto, venivano spietatamente torturati. Nello stesso tempo rese l’hinterland amalfitano così insicuro con le sue incursioni che i viticoltori non si arrischiavano più ad andare nelle loro vigne.
Il duca Giovanni II morì nel 1068-1069 dopo circa 16 anni che era tornato dall’esilio.
Gli successe il figlio Sergio IV, che gli era stato al fianco come coreggente fin dal 1031 e che, all’atto stesso di assumere il potere, si associò il figlio Giovanni III come coreggente. Nelle fonti narrative del tempo non si parla mai degli ultimi duchi di Amalfi come uomini d’azione.
Nella storia dei Normanni di Amato di Montecassino viene invece esaltato Maurus, il padre di Pantaleone de Comite Maurone, come il più ragguardevole degli Amalfitani del suo tempo. Mauro ed i suoi figli erano diventati ricchissimi attraverso il commercio con il Levante. Essi non avevano niente da temere da parte di Gisulfo perché questi, fin dal suo soggiorno nella casa di Pantaleone a Costantinopoli, si premurava di conservare la loro amicizia.
Mauro godeva di buoni rapporti anche con l’abbazia di Montecassino: aveva pagato nel 1066 le nuove porte di bronzo per la chiesa cassinese che l’abate Desiderio aveva ordinato a Costantinopoli dopo la sua visita ad Amalfi.
In occasione della solenne consacrazione della chiesa, nell’ottobre del 1071, era presente, fra i numerosi dignitari civili ed ecclesiastici, anche Mauro, insieme all’arcivescovo di Amalfi. Utilizzò l’occasione per trattare con Gisulfo, in presenza di Alessandro II, la conclusione della pace con Amalfi.
Nonostante le pressioni del Papa, Gisulfo si mostrò disposto soltanto a concedere garanzie personali per i figli di Mauro. Immediatamente dopo la consacrazione della chiesa, Mauro si fece monaco a Montecassino; nello stesso tempo volle farsi immortalare insieme ai figli nei versi dedicatori incisi su una cassetta di avorio destinata all’abate Desiderio (si tratta della famosa cassetta eburnea conservata ancora oggi nell’abbazia di Farfa a Fara in Sabina).
Intanto gli attacchi del principe salernitano contro Amalfi continuavano e l’abate Leone di Cava dovette intercedere per gli Amalfitani prigionieri che Gisulfo trattava in maniera disumana. Ovviamente i beni degli Amalfitani a Salerno erano sempre minacciati di confisca; inoltre, in un combattimento navale, perse la vita Giovanni, uno dei figli di Mauro. Quando poi un secondo figlio di Mauro cadde nelle mani dei Salernitani Gisulfo, malgrado le sue assicurazioni dell’ottobre del 1071, chiese per il riscatto l’astronomica cifra di 30.000 soldi d’oro, mentre i fratelli erano pronti a pagarne solo un terzo.
L’intercessione dell’imperatrice tedesca Agnese, che venne apposta a Salerno, e di tutto il convento di Montecassino non sortì effetto.
Gisulfo, non avendo ricevuto il denaro richiesto, fece torturare a morte il prigioniero e lo fece buttare in mare. Più grave ancora fu per gli Amalfitani la perdita di tre località fortificate sulla costa: secondo il racconto di Amato il duca Sergio se ne rammaricò tanto che in breve morì. Sua moglie ed il figlio Giovanni III, per salvarsi da Gisulfo, lasciarono la città e non vi fecero più ritorno.
Dopo 115 anni finiva così ad Amalfi il dominio della dinastia di Sergio I.
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