La Manna di Sant’Andrea. Aspetti inediti
In memoria di don Andrea Colavolpe ad un anno dalla scomparsa.
Si anticipano alcuni brani della ricerca “La manna di Sant’Andrea. Aspetti inediti”.
Una prima bozza di questo lavoro fu letta da don Andrea nel novembre 2012. Con una lettera ne diede un giudizio positivo, “soprattutto perché appare frutto di accurate ricerche negli archivi” ed invitava a continuare “perché a furia di scavare, la nostra storia religiosa diventa più luminosa”.
Il testo integrale sarà pubblicato sul prossimo numero della Rassegna del Centro di Cultura e Storia Amalfitana. Ringrazio il Presidente per aver consentito l’anticipazione di alcuni contenuti.
La Manna di Sant’Andrea è la nota sostanza liquida che sorge sotto l’altare maggiore della Cripta del Duomo di Amalfi, dove sono custodite le reliquie del corpo dell’Apostolo.
L’altare è costruito come le are dei martiri delle antiche basiliche cimiteriali. All’interno l’altare è vuoto e presenta una cameretta (arca) che comunica con l’esterno mediante due aperture (fenestellae confessionis), cui è apposto un cancelletto.
Nel suolo della cameretta un foro circolare immette in un incavo verticale (cataracta), profondo circa un metro e mezzo, che arriva verso il basso sino alle reliquie dell’Apostolo custodite in un’urna coperta da una lastra di marmo murata.
I fedeli tramite le aperture potevano così accendere lampade votive oppure ottenere reliquie per contatto (brandea) calando nell’incavo un pezzetto di stoffa o altro materiale legato ad una corda.
La Manna si manifestò la prima volta ad Amalfi il 29 novembre 1304, circa un secolo dopo la traslazione del Corpo dell’apostolo da Costantinopoli da parte del cardinale amalfitano Pietro Capuano, avvenuta l’8 maggio 1208.
La cronaca della scoperta racconta che quel giorno, vigilia della festa dell’Apostolo, mentre si celebrava la santa Messa in cripta, un vecchio pellegrino si affacciò al cancelletto sotto l’altare. Si rivolse al pio chierico Pietro Antonio Sciraldo: «Non hai visto il miracolo che c’è sotto l’altare?»
Costui non rispose, allora il pellegrino disse: «Va’ e vedi» e scomparve tra la folla. Finita la Messa, Sciraldo ed altri si accostarono e videro il miracolo: sotto l’altare vi era una coppa sospesa mediante tre fascette d’argento piena di Manna.
Secondo Gregorio di Tours (†594) un fenomeno simile avveniva anche a Patrasso quando le reliquie di S. Andrea erano lì custodite.
Dopo la cronaca della scoperta bisogna aspettare il Cinquecento per trovare fonti di riguardo sul sacro fenomeno.
Di particolare importanza è il rito documentato nella Visita Pastorale del 1580, in cui si raccolse la Manna in presenza di mons. Giulio Rossini, arcivescovo di Amalfi dal 1576 al 1616.
Uno dei cappellani della cripta, il presbitero Pirro de Mura, indossò la stola ed il piviale, intonò il salmo Miserere mei Deus, con l’antifona e i versetti di S. Andrea, cui risposero gli altri cappellani della cripta presenti, cioè Pompeo de Rosa, Giovan Ferdinando Francese e Pietro Angelo de Turris.
L’arcivescovo recitò l’orazione al santo, si accesero luci, tutti si inginocchiarono ai piedi dell’altare, venne suonata la campana grande della chiesa e fu aperto il cancelletto di argento coperto da un velo, chiuso con un catenaccio a chiave e situato nel mezzo dell’altare dalla parte inferiore.
Fu mostrata all’arcivescovo una coppa di argento (crateram) con un’appropriata quantità di Manna che stillava da una verghetta (virgulum) di argento posta nel mezzo di tale coppa, la quale era sostenuta da un cerchio d’argento mediante un ingegnoso sistema.
Sopra la coppa era posto un piatto alla maniera di un coperchio, con la funzione di evitare che sulla Manna finisse polvere, chiuso da un catenaccio d’argento. Sopra questo piatto vi era una corona con dodici immagini di santi che recava in cima la figura di sant’Andrea apostolo sedente e benedicente.
E’ la testimonianza più antica sul rito della Manna, nel quale rispetto ad oggi è evidente una differenza, il Miserere cantato prima di raccogliere il sacro segno; oggi, invece, si esegue se manca.
Fu intonato dal cappellano della cripta, cui risposero gli altri cappellani presenti. Questa specificazione esclude, a mio parere, che questo salmo fosse cantato in occasione della Visita Pastorale.
In questo caso sarebbe stato cantato anche dal vicario, canonici e presbiteri che accompagnavano il vescovo. Invece questi avevano già pregato more solito davanti all’altare maggiore della cripta poco prima, all’inizio della visita.
Fu invece cantato prima di raccogliere la Manna solo dai sacerdoti preposti a tale funzione, i cappellani della cripta e dunque era previsto proprio nell’ambito del rito.
C’è da chiedersi come mai si eseguiva il Miserere, un salmo penitenziale. Ciò va probabilmente collegato con quanto scritto nel 1510 dal giureconsulto Matteo d’Afflitto nei suoi Commentari sulle Costituzioni del Regno e richiamato dall’erudito Giovanni Battista Bolvito nel 1585, secondo i quali se fossero stati commessi peccati non sarebbe stata trovata Manna.
Pertanto è probabile che questo salmo fosse cantato prima del rito per l’espiazione dei peccati affinché il Santo concedesse il miracolo.
In quella visita pastorale mons. Rossini diede specifiche disposizioni riguardanti la Manna.
Ordinò, a pena di sospensione a divinis, che si raccogliesse solo dopo la celebrazione della Santa Messa. Le chiavi del secondo coperchio avrebbero dovuto essere conservate dal cappellano più anziano in carica. Il sacro liquido non poteva essere distribuito ai peccatori notori. Vietò le fiale con il sacro liquido fossero vendute, sotto pena di scomunica ed in aggiunta alle sanzioni previste dai sacri canoni contro i simoniaci.
Tali fiale sono descritte in “laborate et non laborate”, per cui è probabile che alcune venissero artisticamente confezionate. Inoltre si proibiva che in chiesa fossero vendute fiale vuote ed il sacrista Giovan Ferdinando Francese era incaricato di scacciare tali persone dal tempio e denunciarle al Vicario.
Un’altra differenza riscontrabile rispetto ad oggi riguarda la coppa nella quale sorgeva la Manna.
Bolvito, d’Afflitto e la Visita di mons. Rossini
concordano sul fatto che essa sorgeva in una coppa d’argento definita tassa, taza, o cratera in latino; quest’ultimo termine si rinviene anche nella cronaca della scoperta del 1304. Nelle relazioni ad limina della prima metà del Seicento, gli arcivescovi Giacomo Teodoli nel 1627 e Angelo Pichi nel 1642 menzionano questa coppa con il termine latino di patera.
Questo vaso è identificabile con la coppa concava posta attualmente sopra l’ampolla che presenta al centro proprio l’asticella forata denominata virgulum dalla Visita Pastorale del 1580.
Solo nel 1685 troviamo nominata l’ampolla in vetro.
Il 27 febbraio 1685 il sacrestano della Cripta don Pietro Gambardella accompagnò il Primicerio don Felice di Gennaro ed alcune sue nipoti.
Con stupore videro “il vaso di vetro dove si raccoglie detta manna quasi pieno e parte ancora di detto santo liquore nella coppetta di argento, grondante anche di fuori per ogni parte”.
Probabilmente l’ampolla fu indicata come vaso di vetro perché presentava allora un orlo molto aperto, come si nota nella rappresentazione del miracolo della Manna nel soffitto del Duomo, dipinto da Andrea d’Aste nel 1710.
Dalle fonti antiche emerge inoltre il particolare modo di amministrare la manna.
Sin da quando essa fu scoperta accorrevano numerosi pellegrini alla tomba dell’Apostolo, attirati dalla fama del fenomeno e dai miracoli che avvenivano.
Quel giorno, il 29 novembre 1304, fu trovata in quantità tanto abbondante che poté essere passata sugli occhi di tutti i presenti; ognuno avvertì giovamento alla salute ed un uomo di Tramonti, cieco da sette anni, riacquistò la vista.
L’unzione degli occhi praticata in quella circostanza non fu un caso isolato ma assunse nel tempo le forme di un vero e proprio rituale, documentato nel Cinquecento.
La Manna trovata nella coppa d’argento sopra il sepolcro veniva raccolta mediante cucchiaini d’argento e versata in un altro calice in cui un sacerdote bagnava una bacchetta d’argento che passava sugli occhi dei fedeli in modo da tracciare il segno della croce dicendo, secondo Bolvito:
Per Signum Crucis, et Mannae Unctionem
Det tibi Deus omnem benedictionem
(Con il segno della Croce e l’unzione della Manna Dio di conceda ogni benedizione)
Al termine del rito il calice con la Manna eventualmente rimasta veniva conservato sotto l’altare della cripta. Questo calice, diverso, si ripete, dalla coppa dove sgorgava, era destinato appositamente a raccogliere il sacro liquido da distribuire ai fedeli ed è documentato dal 1498. Gli specifici utensili sacri a ciò destinati emergono con precisione dagli inventari del tesoro del Duomo.
Nel 1571 sono descritti quattro cucchiai d’argento che servivano a raccogliere e ad amministrare la santa Manna, di cui due grandi, e quattro “stili” d’argento per segnare la fronte e gli occhi dei fedeli. In un altro inventario del 1574 sono menzionati due calici “per conservatorio della manna”, con “quattro cochiari d’argento tundi, et dui altri piccoli”.
Questo rituale era ancora praticato agli inizi dell’episcopato di mons. Michele Bologna (1701 – 1731), per la presenza sia un vasetto d’argento con la manna che di uno “stecco d’argento per dispensare la manna et un cocchiarino”.
Infine Giovanni Battista Bolvito ci consente di chiarire per quanto tempo mancò nel corso del XVI secolo. Fu trovata nuovamente il 14 febbraio 1586, giorno delle Sacre Ceneri.
Una certa Maximilla andò nella cripta ad implorare misericordia per tutto il popolo, poi si recò dall’Arcivescovo mons. Giulio Rossini, assicurandolo che le sue suppliche erano state ascoltate. Il vescovo, sceso subito in cripta con altri ecclesiastici e grande folla, verificò che la Manna era tornata a manifestarsi in grande abbondanza.
Secondo Pietro Pirri, le ultime notizie certe risalgono ad una Platea di mons. D’Anna, Arcivescovo di Amalfi dal 1530 al 1541, in cui si parla “dell’evidentissimo miracolo della pretiosa manna che di tal beato corpo scaturisce”, poi nessuna notizia sino al 1586.
Ebbene, Bolvito lamenta che nel momento in cui scriveva, cioè nel 1585, la Manna, che era sempre scaturita abbondante, non sorgeva più e precisamente dall’inizio di aprile del 1584:
“Ma questa celestiale gracia dela detta Manna, essendo per sempre, et molto abondantemente dal detto sacro corpo scatorita, hora, con universale dolore di tutta la christianità, si è inteso che sia in gran parte mancata di sorgere, et proprie dal principio del mese d’Aprile del anno del signore 1584”.
La visita pastorale del 1580, in cui fu trovata, ci conferma che tale notizia è autentica.
Il sacro liquido mancò per quasi due anni, pochi rispetto ai circai cinquant’anni che ritenevamo, ma vi è un equivoco basato sul fatto che per quei cinquant’anni mancavano le notizie non la Manna.
Due anni sono comunque un periodo di assenza molto lungo, soprattutto perché allora era raccolta continuamente per essere distribuita ai pellegrini, non solo nei giorni delle festività dell’apostolo: nel 1703 l’arcivescovo Michele Bologna scrive che i presuli del passato avevano affidato le chiavi della Manna al sagrestano della cripta “per minore incommodo, stante il bisogno di doversi aprire di continuo per sodisfare alla devotione de’ concorrenti”.
Il ritrovamento nel 1586 venne considerato tanto importante da essere ricordato come la seconda invenzione della Manna, dopo la prima nel 1304; fu stabilito che ogni mercoledì delle Ceneri si celebrasse la memoria liturgica dell’avvenimento e fosse giorno di mercato nella città. La prima era praticata ancora nel 1785 ma non più nel 1903, quando rimaneva a ricordo dell’evento solo la fiera.
Dunque non solo quella del trenta novembre, ma anche la celebre fiera del primo giorno di Quaresima era legata al protettore di Amalfi.
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